CENNI BIOGRAFICI – ELEONORA ZOLLO
Io amo l’arte in ogni sua forma ed espressione e ho due grandi passioni: il canto e la scrittura.
Il canto è sempre stato il mio canale di sfogo. Da bambina guardavo i classici Disney in tv e mi lasciavo trasportare dalle colonne sonore, intonandole insieme ai personaggi. Mia madre si accorse di questa mia attitudine e mi permise di esprimerla appieno facendomi seguire delle lezioni private. Da quel momento non avrei più smesso. Coltivai la mia passione anche da autodidatta, nel 2010 incisi un album e devolvetti il ricavato delle vendite alla Fondazione Telethon. Fu da quel momento che entrai a far parte del coordinamento Telethon della mia città. Quando salgo su un palco per cantare, tutto scompare. Ci siamo solo io e la musica. Mi sento viva e so di poter mostrare agli altri la donna che sono, al di là della malattia. Ed è proprio dietro le quinte di un palco che sono stata colta come da una folgorazione, un pensiero fugace che racchiude tutto il mio essere. Sì, perché purtroppo a volte la disabilità diventa una maschera che nasconde e non lascia vedere agli altri la persona che c’è sotto, non lascia immaginare cosa ci sia dietro le quinte della sua vita. C’è un passo nel mio romanzo in cui esprimo bene quanto appena detto:
“La vita di una persona disabile è come uno spettacolo teatrale: gli attori portano in scena il prodotto finito, ma gli spettatori conoscono tutto quello che ci sta dietro? Conoscono cosa succede dietro le quinte? Riescono a scorgere sotto la maschera del personaggio che l’attore rappresenta? No. Lo possono immaginare, certo, ma non saperlo o vederlo veramente. Allo stesso modo, le persone non sanno che cosa succede nella vita di tutti i giorni di un disabile. Vedono come prima cosa tristezza, amarezza, difficoltà, inerzia, malinconia, lentezza, impossibilità a vivere una vita in pienezza. Fanno fatica a scorgere un essere umano completo, con il suo carattere, i suoi pensieri, una visione personale del mondo, della vita; con le sue aspirazioni, le sue passioni e gli obiettivi che si pone, con i suoi momenti di gloria oltre a quelli di sconforto. Insomma, fanno fatica a capire che il disabile che hanno davanti è una persona comune, né peggiore né migliore”.
Così, decisi di sfruttare l’altra mia grande passione, la scrittura, per dare vita ad un romanzo che parlasse di me. Una mia qualità è la testardaggine e, nonostante i miei impegni universitari e poi lavorativi, in sei anni ho finalmente portato a compimento il mio obiettivo. “Dietro le quinte” è un romanzo autobiografico che parla di me, di SMA e d’amore. È una storia dissacrante, che strappa la maschera della disabilità e permette al lettore di conoscere e di conoscermi. Così, io mi racconto, senza veli, lungo una serie di episodi dal sapore tragicomico. Nel susseguirsi delle pagine affronto con ironia diversi temi che, con buona probabilità, accomunano le storie di vita di persone con una disabilità come la mia. Dal mio racconto emerge il rapporto con le mie assistenti, la dipendenza dagli altri e la mia irrefrenabile smania di libertà e indipendenza.
“La luna quella notte sembrava splendere di più, perché non c’era niente che mi impediva di ammirarla, nessuno ad assillarmi, nessuno a dirmi cosa dovevo o non dovevo, potevo o non potevo fare. Gli altri andarono a bagnarsi i piedi. Quella notte potevo farlo anch’io. Anna mi prese in braccio. «No, Anna, ho la nausea, se mi sollevi vomito». Lei mi guardò con superiorità. «Ti ricordo che mia figlia mi ha cagato addosso, non mi fai paura». Celeste intervenne in suo aiuto. Una da un lato, una dall’altro, mi tennero sollevata con i piedi a bagno e la notte di fronte. Eravamo solo io, il cielo, la luna, le stelle, gli amici, la sabbia, il mare. La luna quella notte splendeva di più, perché ero libera.”
Metto in mostra la lenta presa di consapevolezza di essere affetta da una patologia neuromuscolare – perché un conto è sapere di avere la SMA, un conto è prenderne profonda coscienza.
“L’adrenalina, che fino a poco tempo prima mi aveva tenuta sveglia la notte, cedette il posto al terrore. Fu proprio in una di quelle tormentate notti che vidi la realtà, che osservai me stessa dall’esterno, che mi percepii, che toccai la SMA. La toccai e toccai me stessa. E poi compresi. Compresi che io ero questo, che lo ero sempre stata.”
E poi esibisco la mia positività, come spinta per guardare sempre avanti.
“Ho sempre amato la mia vita. Perché non è scontata, non è facile e nemmeno gentile, e a volte si diverte a prendersi gioco di me, un po’ come la tipologia di uomini dai quali sono irrimediabilmente attratta. Insomma, la amo perché fa la stronza. Ma anche perché mi sa sorprendere, mi dona emozioni forti e piene di significato, sa farmi divertire, ridere e sorridere. La amo perché è lotta e dopo un po’ ricompensa, è desiderio e poi realizzazione, anche se devo aspettare a lungo prima di ottenere qualcosa. La amo perché sa cambiare e farmi vedere le cose sotto prospettive sempre nuove. Lei gioca con me e io gioco con lei, accettando le sue sfide e affrontandole con ironia e desiderio di rivincita.”
L’altro tema dominante è quello dell’amore. Negli anni della mia adolescenza ero convinta di non poter essere amata e di non poter essere desiderata a causa della mia patologia; mi leggevo attraverso l’occhio del pregiudizio e non riconoscevo l’amore quando si presentava alla mia porta.
“Le sere passavano tra corse nei corridoi e chiacchiere all’aria aperta. A una certa ora Federico si volatilizzava, senza un motivo plausibile, lasciandoci soli. Allora Nicolò iniziava i suoi vani tentativi di prendermi per mano, di avvicinarsi sempre di più a me, che non mi ero ancora resa conto di essere soltanto una ragazza normale insieme a un ragazzo normale. «Tanto prima o poi cederai». «Non credo proprio, non sono una che cede facilmente». Mi prendeva la mano, io la toglievo, ma poi aspettavo che ci riprovasse. Iniziavo a prenderci gusto.”
Fino a pochi anni fa pensavo inoltre di non poter io stessa amare qualcuno in modo completo perché i limiti imposti dalla mia malattia me lo avrebbero impedito.
“[…]Per la prima volta, ieri sera, mentre guardavo una commedia sentimentale, ho pensato non solo di volere un uomo che mi ami in modo romantico e passionale, ma anche che avrei voluto essere una donna normale, per amare a mia volta senza la paura di non essere accettata. Un uomo che possa amare me così come sono, dove lo trovo? In questa stupida città no di certo. E poi, vorrei davvero sacrificare la sua felicità per la mia egoistica felicità?[…]”
Io mi racconto. E lo faccio giungendo fino al momento in cui il susseguirsi degli eventi, mi porta a conoscere un ragazzo, Davide, di Firenze, e a riscoprire me stessa in una storia d’amore che ammala e poi guarisce. Mi piace vederla come la storia di una passione e del suo tormento, di un viaggio interiore che si realizza nel meraviglioso incontro, o scontro, con l’altro. Io e Davide condividiamo l’animo artistico e la passione per la musica. È così che mi conquista, cantandomi le canzoni di Max Pezzali e degli 883 e dedicandomi le sue parole. Impariamo a conoscerci tra lunghe chiacchierate e qualche verso dei grandi successi di Max e poi accade una cosa per me del tutto nuova: Davide mi vede come donna e per la prima volta esperisco la sensazione di essere desiderata e accettata.
“«Cosa ne penso? Penso che ognuno abbia i suoi casini, alcuni più evidenti, altri meno. Penso che tu sia una ragazza sensazionale. Che a me non importa niente se non muovi braccia e gambe. Se sono qui è perché ammiro la persona che sei, così come sei». Ora sono io quella ammutolita. Giuro, non ci sto capendo più un cazzo. È tutto in disordine dentro di me.”
I muri delle mie difese crolleranno e io potrò finalmente vedere la mia ferita, attraverso quella di Davide, un ragazzo con il quale le circostanze della vita non sono state gentili. L’incontro tra me e Davide porterà a una collusione di vissuti che altro non farà, se non scatenare il mio risveglio e la mia liberazione, la liberazione dalla maschera. Davide, ci tengo a precisare, è forse il più pregnante personaggio maschile del mio romanzo, ma non è l’unico. Il mio intento, infatti, è quello di demistificare la disabilità, normalizzandola, di mostrare il retroscena di un’esistenza palpitante, piccante, ardente.
“Non sono mai stata così irrequieta, smaniosa di vita e di adrenalina, alla ricerca della parte più libera di me. Il cielo azzurro che si apre illimitato sull’orizzonte, la strada che converge in un punto lontano e il tepore del sole che accarezza i nostri volti, mi suggeriscono che questa è la parte più vera di me.”
La mia idea è duplice. Da un lato vorrei portare il lettore a scoprire il “dietro le quinte” della mia storia, per produrre conoscenza sulla SMA e sulle ricadute che essa ha su più livelli. Dall’altro vorrei che il mio romanzo potesse svolgere una funzione di confronto per i giovani che si trovano ad affrontare il loro percorso di crescita, portando con sé anche il “fardello” di una grave disabilità.
Iniziai a scrivere il mio romanzo in una notte limpidissima. Guardavo la luna brillare maestosa nel cielo, immaginavo migliaia di occhi incontrarsi in quel punto lontano e le affidavo il mio sogno più grande, il sogno di poter raggiungere tutti quegli occhi e mostrare loro ciò che vedo io, ciò che vivo io…